giovedì 29 aprile 2010

mercoledì 28 aprile 2010

CAMICI E DIVISE: STORIE DI VIOLENZE E CONNIVENZE

In questi anni la psichiatria ha enormemente e capillarmente incrementato il suo potere: non solo oggi assistiamo ad una sempre crescente medicalizzazione di massa e patologizzazione dei comportamenti umani, che accompagnano tutte le fasi della nostra vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche ad un incremento del suo ruolo d’azione e di repressione a fianco delle forze dell’ordine e all’interno delle altre istituzioni totali. Troppo spesso infatti la psichiatria, e la medicina in genere, diviene complice ed alleata partecipe - o comunque omertosa - delle violenze e dei pestaggi operati dalle forze dell’ordine: vi è una connivenza ed una corresponsabilità dei camici bianchi non solo nel momento in cui scrivono perizie omettendo la vera causa della morte (come la presenza di evidenti segni di percosse), ma soprattutto nel lavorare fianco a fianco con chi queste violenze le perpetra quotidianamente all’interno dei CIE (Centri di Identificazione ed espulsione) e delle carceri. Il medico, nelle case circondariali, lavora a stretto contatto con gli agenti, e ha primariamente un ruolo da “manutentore”, dovendo garantire il benessere psico-fisico del detenuto, perché l’istituzione per cui lavora esige ordine e non esiste ordine se non attraverso “la salute” del detenuto. Automaticamente il medico assume quindi anche poteri custodiali, e quasi sempre è consapevole dei pestaggi poiché è piuttosto frequente che il detenuto picchiato venga poi portato in infermeria per “un controllo” con addosso i segni che rendono evidente la violenza subita, ma mai li denuncia. La direzione delle carceri favoreggia inoltre l’uso diffuso, abituale (tre volte al giorno) ed indiscriminato di sedativi, soprattutto benzodiazepine, per tenere a bada attraverso le cure psichiatriche i detenuti, che, pur non facendo uso di stupefacenti, vengono così indirizzati verso la psicofamacologia. Invece di avere come fine primario la salute dei detenuti, i medici diffondono l’uso di psicofarmaci, che permette di controllare chimicamente l’umore dei detenuti , di lenire l’ansia della carcerazione, e per questo motivo vengono appoggiati dalla direzione. L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Gocce di EN, TRANQUIRIT, TAVOR, LEXOTAN, LIBRIUM, MINIAS e tutta una miriade di “sostanze psicotrope legali” sono dunque a disposizione dei detenuti . Lo psichiatra non può non essere a conoscenza del fatto che le benzodiazepine debbano essere usate per brevi periodi (per tre o al massimo quattro settimane), poiché il loro uso prolungato - così come dentro un carcere – è devastante, e può arrivare persino a provocare cambiamenti della personalità, e nel peggiore dei casi a tramutare la carcerazione in una pena di morte. La benzodiazepina più gettonata è il Minias, che è anche la più dannosa e quella che crea maggiore dipendenza. Basta un anno di carcere a base di benzodiazepine per assicurarsi i seguenti effetti indesiderati: riduzione dell’attenzione (tale da rendere pericolosa la guida), confusione ed affaticamento, cefalea, vertigini e debolezza muscolare, visione doppia, disturbi gastrointestinali ed epatici, cambiamenti nella libido fino all’ impotenza sessuale, amnesia, irrequietezza, ottundimento delle emozioni, allucinazioni e addirittura tendenze suicide. Inoltre questi farmaci sviluppano una dipendenza fisica, e la sospensione della terapia può provocare fenomeni di rimbalzo e di astinenza. La stessa massiccia somministrazione di benzodiazepine, sedativi ed ipnotici avviene all’interno dei CIE, anche mescolati nel cibo all’insaputa dei reclusi, e ad opera non di servizi specializzati, ma del personale sanitario che ha in gestione la struttura (Croce Rossa, Misericordia, etc.): l’abuso della chimica e degli psicofarmaci all’interno dell’istituzione totale è la sola risposta data a chi arriva nel nostro paese e, senza aver commesso alcun reato, si trova rinchiuso in strutture all’interno delle quali è impossibile vivere. Anche all’interno dell’istituzione psichiatrica le pratiche sono costellate di abusi alla persona, che vanno dalla contenzione fisica all’uso dell’elettroshock, tuttora presentato come soluzione utile in casi che sembrano sfuggire al controllo degli psichiatri e quando la terapia non dà i risultati sperati. I TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), eseguiti spesso con violenza dalle forze dell’ordine e dagli infermieri, così come il legare al letto di contenzione un paziente, sono infatti prassi abituali, abusi che i pazienti degli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) subiscono regolarmente, e che a volte possono portare anche alla morte. Come per Giuseppe Casu, venditore ambulante sessantenne di Cagliari, reo di aver commercializzato la propria verdura senza licenza presso il mercato del suo paese -come faceva da anni - e per questo ricoverato il 14 giugno 2006 in TSO nell’SPDC dell’ospedale SS. Trinità di Cagliari. Qui è rimasto legato mani e piedi al letto per sette giorni e sedato farmacologicamente, finché non è deceduto per trombo embolia dell’arteria polmonare il 21 giugno. I medici del reparto sono accusati di omicidio colposo, ed sono inoltre in corso delle indagini sulla scomparsa della cartella clinica e sulla sostituzione dei reperti anatomici, esaminati in sede di autopsia, con reperti animali. Francesco Mastrogiovanni era invece un maestro elementare anarchico di 58 anni di Castelnuovo Cilento, ucciso il 4 agosto 2009 in regime di TSO nel reparto psichiatrico dell’ospedale S. Luca di Vallo della Lucania. Il 31 luglio infatti, mentre si trovava in villeggiatura a Pollica, l’uomo subì un ricovero coatto, pur senza una motivazione comprovata né commisurata al cospicuo dispiegamento di forze dell’ordine. Non è ancora chiaro il motivo per cui sia stato disposto il ricovero coatto, dato che testimoni presenti sul luogo raccontano di un uomo tranquillo e persino collaborativo al momento del ricovero (si fa sedare e gli consentono di farsi una doccia e bere un caffè!). Risultano inoltre violate le procedure previste dalla legge 180 in caso di TSO, poiché il procedimento è stato attivato da un solo medico, anziché dai due previsti, e fatto convalidare da un sindaco diverso da quello del paese in cui si sono svolti i fatti. Perché inoltre Francesco viene portato a Vallo nonostante il suo profondo timore di essere condotto in quel reparto e di morirci? Per tutto il tempo del suo ricovero all’interno del reparto, l’uomo è stato sottoposto a contenzione fisica, è stato duramente sedato con farmaci antipsicotici, idratato e alimentato solo con soluzioni fisiologiche, il tutto senza essere monitorato né controllato dal personale. La conferma dell’atroce trattamento subito da Francesco arriva dalla telecamera posizionata nella sua stanza: il video, sottoposto a sequestro, lo riprende legato al letto nudo per 80 ore, in una posizione in cui la normale funzione respiratoria è compromessa. Nel legittimo, prolungato ed estenuante tentativo di liberarsi, l’uomo si procura escoriazioni larghe fino a 4 centimetri ai polsi e alle caviglie. La contenzione fisica chiaramente non è stata annotata nella cartella clinica ma ha evidentemente provocato l’edema polmonare acuto che ha condotto alla morte il maestro. Allo stato attuale ci sono 19 indagati: oltre ai 7 medici, anche i 12 infermieri che hanno prestato servizio nel reparto durante il suo ricovero. Nella prassi della vita psichiatrica, non solo quindi i TSO vengono attuati con estrema frequenza e leggerezza - e non in via del tutto eccezionale come vorrebbe la legge 180 -, ma spesso capita che anche quelli che si recano in reparto volontariamente, nel momento in cui chiedono di poter tornare a casa, siano trattenuti tramite pressioni e la minaccia di un provvedimento di TSO. A volte l’opera di persuasione viene supportata dalla violenza fisica, come nel caso di Edmond Idehen, nigeriano di 38 anni morto in reparto a Bologna il 26 maggio 2007 per una crisi cardiaca mentre infermieri e poliziotti tentavano di legarlo al letto, in seguito alla sue insistenti e giuste richieste di uscire dal reparto, visto che vi era entrato volontariamente. Altra pratica di cui abusa la psichiatria è l’obbligo delle cure, che tra l’altro si riduce ad un bombardamento farmacologico, di durata indeterminata ed imposto senza le dovute informazioni ed i dovuti controlli medici. Di tali psiocofarmaci vengono come al solito taciuti i gravi effetti collaterali che possono causare anche la morte, come nel caso di una donna palermitana, A. S., di 63 anni morta il 28 agosto 2006 in reparto psichiatrico a Palermo, dove era entrata il 17 agosto e trattenuta per accertamenti; dopo alcuni giorni di stato comatoso provocato dai farmaci (dal 25 al 27), la donna si sarebbe risvegliata per morire la notte tra il 28 e il 29. Anche Roberto Melino, di 24 anni, è morto per arresto cardiocircolatorio il 12 giugno 2007 nel reparto psichiatrico di Empoli, dove era entrato volontariamente, e, manifestata la sua legittima volontà di uscire, è stato aggredito chimicamente con neurolettici. La sera prima i familiari avevano sollecitato una visita dei medici poiché il ragazzo ansimava e accusava problemi respiratori. Ancora resta da chiarire se la morte sia avvenuta per cause naturali o in seguito alla somministrazione dei farmaci; il medico di parte non ha potuto assistere all’autopsia a causa di un fraintendimento circa l’orario della stessa (!).

Un caso emblematico di somministrazione del tutto arbitraria di psicofarmaci è quello di Sorin Calin, ragazzo rumeno di 24 anni, morto il 20 ottobre 2009 nel tragitto dalla caserma dei carabinieri di Montecatini Terme al reparto dell’ospedale di Pistoia a causa della somministrazione di un ansiolitico, il Midazolam, controindicato in caso di contemporanea assunzione di alcool, motivo per cui era stato fermato ed accompagnato in caserma. Secondo l’unica versione, ovvero quella dei carabinieri che chiamano il 118, il giovane “dà in escandescenza”, sbattendo contro il muro e contro il pavimento (così i carabinieri motivano i lividi trovati, sul corpo!). I sanitari intervengono somministrandogli il potente sedativo, e più tardi i carabinieri effettuano una nuova chiamata al 118 perché non riescono più a svegliare il giovane, che arriva all’ospedale già cadavere. Il medico, l’infermiere e tre volontari del Soccorso Pubblico sono stati sentiti dai carabinieri del reparto operativo di Pistoia, ma per ora nessuno è iscritto nel registro degli indagati! Il medico, che ha effettuato la somministrazione nonostante fosse consapevole dell’alcol assunto da Sorin, dichiara di aver agito in piena coscienza , supportato dall’ASL, che, interrogata in merito, ha descritto la procedura come “regolare”. Ciò ci lascia molto perplessi, in quanto il foglietto illustrativo del Midazolam cita tra le controindicazioni la somministrazione del farmaco in caso di intossicazione acuta da alcol. Tra l’altro si afferma anche che l’iniezione di tale sedativo “deve avvenire solo nelle strutture in cui sono disponibili apparecchiature per la rianimazione”, mentre in questo caso è avvenuta nella caserma dei carabinieri. Analogo è il caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 nel reparto psichiatrico di Varese. Nonostante i carabinieri, che avevano richiesto il provvedimento di TSO, parlassero di evidente stato di ubriachezza, i medici gli somministrarono tre ansiolitici (Tavor, En e Solfaren) ed un anestetico, causandone il decesso. Uva era giunto in ospedale con ematomi, escoriazioni, e perdita di sangue dall’ano, evidenti conseguenze del pestaggio che aveva subito in caserma per mano di carabinieri e polizia nelle 4 ore precedenti al TSO. L’intero caso è emblematico: perché quando un amico di Giuseppe, testimone del pestaggio chiama il 118, i carabinieri ne bloccano l’intervento? Perché ben 4 ore dopo il fermo saranno i carabinieri stessi a richiedere un intervento di TSO? Perché i medici del reparto psichiatrico non hanno prestato ad Uva le cure necessarie (il pestaggio subìto era evidente), anziché procedere alla somministrazione arbitraria di psicofarmaci? Perché somministrare ansiolitici incompatibili con alcol? Perché finora non sono stati eseguiti gli esami radiologici, per evidenziare eventuali fratture sul corpo del giovane, visto che presentava evidenti segni di percosse? Dove sono finiti - e chi ha fatto sparire - referti importanti come lo slip sporco di sangue? Gli unici indagati sono per ora i due medici, per omicidio colposo dovuto ad errata somministrazione di farmaci, ma i familiari chiedono la riapertura delle indagini, e hanno recentemente presentato un esposto alla Procura di Varese, chiedendo di effettuare un’autopsia più accurata sul corpo del giovane e di interrogare l’unico testimone del fermo e del pestaggio, l’amico Alberto, ancora mai sentito. Non può che rimanere il dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato sulle quali è necessario fare chiarezza! Come non si mette in discussione l’operato delle forze dell’ordine, ancor meno si mette in discussione quello della psichiatria, il cui giudizio e metodo sono insindacabili grazie all’autorevolezza datagli dall’essere considerata una scienza medica, nonostante sia priva di comprovate basi scientifiche. In realtà questa falsa scienza, come le altre istituzioni totali, abusa del suo potere sulle persone ed è anch’essa una zona di silenzio, una zona d’ombra impenetrabile e lontana dagli sguardi della collettività, in cui è possibile commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità.