“Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri” di Giorgio Antonucci
recensione di Eugenia Omodei Zorini
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Psico-terapia e scienze umane, FrancoAngeli - anno 2009, volume XLIII, n.1
Alcune note biografiche sono utili per collocare il Diario dal manicomio in un contesto storico preciso. Giorgio Antonucci si è laureato in medicina all’inizio degli anni 1960, e già durante gli anni dell’università è entrato in contrasto con i docenti per le sue critiche esplicite all’impostazione autoritaria della medicina ufficiale. Dopo aver lavorato in alcuni quartieri della periferia di Firenze, la sua città, e in alcune borgate dei dintorni, è venuto in contatto con la realtà segregante delle Case di Cura e degli Ospedali Psichiatrici. Ha allora dedicato il suo tempo a evitare i ricoveri psichiatrici. Nel 1968 a Cividale del Friuli ha fatto parte del primo reparto di Ospedale Civile che nasce come padiglione aperto in alternativa ai manicomi. Nel 1969 ha lavorato nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, allora diretto da Franco Basaglia. Dal 1970 al 1972, nel Servizio Psichiatrico Provinciale di Reggio Emilia, dove anch’io lavoravo, è stato responsabile del Centro di Igiene Mentale di Castelnuovo Monti. E’ stata un’esperienza unica e significativa la collaborazione con lui alle iniziative innovative di partecipazione e coinvolgimento delle comunità locali per rompere la segregazione dei ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico San Lazzaro.
Dall’agosto 1973 al settembre 1996 ha lavorato nel manicomio di Imola procedendo a smantellare i sistemi di contenzione, segregazione e isolamento sia che essi fossero fisici, farmacologici, sociali, architettonici o altro. Lo smantellamento è stato effettivo, concreto. Non è stata un’operazione nuovamente coercitiva e dettata da norme provenienti dall’alto, com’è accaduto in diversi ospedali psichiatrici italiani, con esiti talvolta tragici. Giorgio ha proceduto allo smantellamento insieme ai ricoverati, parlando con loro, rispettandoli nelle loro necessità, passando giorni e notti vicino a loro per vincere la paura, per superare le conseguenze somatiche delle immobilizzazioni, le difficoltà del cambiamento, le resistenze create dalla sofferenza per adattarsi all’impossibile. Per non parlare delle resistenze e del contrattacco dell’istituzione, e del personale anch’esso da anni addestrato ad un ruolo autoritario, punitivo, per lo più sadico e disprezzante dell’umanità del ricoverato.
Come si colloca Giorgio Antonucci rispetto alla psichiatria e all’antipsichiatria? Più vicino all’antipsichiatria, come si nota anche dal percorso del suo lavoro, si discosta comunque anche da questa. La sua posizione parte da una critica radicale al pensiero psichiatrico in tutte le sue forme denunciandone l’insito abuso di potere, e si contrappone alla medicalizzazione delle difficoltà esistenziali e delle contraddizioni incontrate dall’essere umano. Thomas Szasz, autore nel 1961 de Il mito della malattia mentale (Milano: il Saggiatore, 1966), è forse lo “psichiatra” più vicino alle posizioni espresse da Antonucci. Dopo essersi conosciuti attraverso i rispettivi scritti, si sono infine incontrati ad opera del pittore Colacicchi. Così si esprime Szasz: “La psichiatria italiana è arricchita in modo incommensurabile da Giorgio Antonucci. Si può ritenerlo un buon psichiatra (qualunque sia il significato del termine): ed è vero. O si può ritenerlo un buon antipsichiatra (qualunque sia il significato del termmine): ed è altrettanto vero. Io preferisco ritenerlo una persona come si deve che pone il rispetto per il cosidetto malato mentale al di sopra del rispetto per la professione” (in: Giorgio Antonnucci, Il pregiudizio psichiatrico. Milano: Eléuthera, 1989, p.11). La critica al pensiero psichiatrico è intimamente legata e connessa alla critica culturale, sociale e politica nel rifiuto di ideologie verticali, alla ricerca di un patto che permetta pari dignità e rispetto per ciascuna persona. “La verità di Antonucci - scrive Giuseppe Gozzini - e tutto il suo pensiero sono basati sull’osservazione della realtà senza barare. Non è un visionario o un ingenuo: sa che la posta in gioco, per superare l’oppressione psichiatrica, è una società che abbia come fondamento la rinuncia a unificare pensieri e comportamenti degli individui per ridurli a modelli precostituiti, la rinuncia a regolare la vita sociale tracciando non solo i confini (legittimi e necessari) tra permesso e vietato, ma i confini tra normale e patologico, sano di mente e pazzo” (ibidem, p.17). Antonucci rivolge lo stesso rigore critico al pensiero psicoanalitico. Freud ha permesso di superare la dicotomia tra sano e malato, dal momento che ci ha mostrato come la psicodinamica è la stessa in tutti gli individui. Eppure, sia nei testi freudiani che nella vita di Freud, sia nella psicoanalisi dopo di lui che nelle varie forme di psicoterapia, possiamo spesso rintracciare l’uso della conoscenza per stigmatizzare comportamenti, per esercitare il potere in modi mascherati, sottili e violenti. La diagnosi può essere un importante strumento nel nostro lavoro, ma è un giudizio utilizzabile per asservire la scienza a strumento di potere. Il punto di osservazione di Giorgio Antonucci è estremo ed estremamente concreto: l’internamento nei reparti psichiatrici, la camicia di forza fisica o chimica, la cancellazione della dignità umana e del diritto di autodeterminazione. Antonucci ha individuato nel pensiero psichiatrico una forma di violenza estrema, astuta e socialmente squalificante, poichè prende come bersaglio la soggettività; attraverso la definizione di malato di mente non vengono puniti i comportamenti che non si uniformano a regole, ma si colpisce la persona nella sua essenza definendola incapace di intenzione, di discernimento, di volontà.
Ed eccomi ora a presentare il Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri. 440 pagine, senza divisione in capitoli, senza introduzione, senza storia, senza un lineare racconto dell’esperienza durata 23 anni all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Imola, quasi sempre senza date. Appunto, ricordi e pensieri. Quando Giorgio me lo diede, una parte di me pensò che non sarei mai riuscita a leggere quel libro. Non è stato così. Sono rimasta catturata. Nel libro sono presenti brevi episodi di cronaca, che segnalano i suoi percorsi in ospedale: chiede in partenza di essere assegnato al reparto peggiore e da lì inizia l’opera di smantellamento delle forme contenitive, passando progressivamente agli altri reparti. Nel testo compaiono quasi casualmente le iniziative intraprese per rompere l’isolamento coinvolgendo amici, studenti, istituzioni varie, artisti, musicisti, pittori, le gite al mare con persone recluse da una vita. Si trovano accenni, senza cronache dettagliate, alle plurime scontate, talvolta ridicole (se non avessero risvolti tragici e immorali) storie giudiziarie a cui è andato incontro. La storia raccontata dai ricordi e pensieri è la storia interna alla discesa e immersione negli inferi di un ospedale psichiatrico. Sono pensieri e ricordi che accompagnano Giorgio nella sua strenua e incredibile lotta per il ricooscimento della dignità umana di pazienti che il manicomio ha reso fantasmi, grumi di sofferenza mai comunicata. Frasi dei ricoverati, voci che vengono da lontano, da anni e anni di silenzio, talvolta l’atto iniziale che arrivò a spezzare le loro vite. Momenti di vita e di riflessione spesso resi in forma autenticamente poetica. Giorgio dà voce a chi è stato ridotto a bisbigliare o a lasciarsi incontrare solo in un fuggevole sguardo. Spesso compaiono citazioni da libri che va leggendo quasi a cercare forza, sostegno, interlocutori nella sua impresa solitaria. L’impresa è solitaria nonostante la grande e varia partecipazione che Giorgio riesce a creare intorno al suo lavoro, poichè sua è la responsabilità e sua è la decisione di andare fino in fondo. I compagni di viaggio si affiancano per periodi, per iniziative e poi vanno, avendo fatto un’esperienza straordinaria. Giorgio ci comunica i suoi momenti di condivisione con entisiasmo e allegrezza, ma anche la solitudine di tanti altri momenti in cui sente l’abbandono e la dimenticanza che lo accomunano allo stato di abbandono e dimenticanza in cui vivono i suoi ricoverati. Talvolta col procedere del diario non si sa più se una poesia racconta di se stesso o delle vicende di un degente, ed è indifferente, poichè è questa la vicenda umana a cui l’autore ci permette di partecipare. Mi pare quasi che l’andamento del diario abbia una storia interna: all’inizio più fatti, azioni, gente che circola, si avverte il sostegno al progetto. Man mano pare quasi che Giorgio stia attraversando una selva oscura che sembra lo voglia inghiottire. Non si distinguono più i pensieri suoi da quelli dei ricoverati, entra all’interno della vita che loro vivono, dorme con loro, si fa legare al letto per capire da dentro cosa può accadere ad un essere umano. Ed è tremendo. Come se fosse il regno della non-speranza. Poi accade qualcosa, come l’allegria di un pranzo insieme, la gioia, la fierezza di un attimo di cose quotidiane con le persone senza più il “camicione”, contente di quel momento nonostante tutto. Sembra allora che un raggio di sole abbia interrotto quel buio morto, popolato da fantasmi. Penetrato non si sa come ad umanizzare un deserto. Giorgio ha lavorato per cercare soluzioni esistenziali ai ricoverati, ma quando nulla può esser fatto c’è ancora un concerto, un pranzo che possono permettere un sorriso. E… così i fantasmi sono improvvisamente esseri umani al Parlamento Europeo di Strasburgo per raccontare la loro storia e chiedere il rispetto dei diritti. Il Diario termina con una certa fatica, quasi che l’autore abbia avuto difficoltà a staccarsi dalle annotazioni, dalla poesia con cui ha tentato di parlare e di far parlare del “luogo infame”.
Un testo molto particolare, un’impresa che merita di essere conosciuta nel clima sociale e culturale della psichiatria odierna, che sembra voler affermare la centralità del paziente ma che nei fatti, stretta da logiche aziendalistiche che reclamano protocolli e risultati tangibili, ne nega ancora una volta la soggettività. Il punto di vista in cui si colloca Antonucci porta a riflettere chiunque lavori nell’ambito della salute mentale, anche chi come me ha scelto la terapia individuale, poichè ci mostra le conseguenze estreme di un atteggiamento giudicante che risulta essere allineato con tendenze segreganti e violente.
Eugenia Omodei Zorini