lunedì 4 maggio 2009

La nave del paradiso

di Erveda Sansi


dedicato a Italo Mottarella

La nave del paradiso (Spirali/Vel, 1990) è il titolo di un libro scritto da Giorgio Antonucci che non è un letterato di professione, ma è stato capace di trasporre in linguaggio poetico la parola dei muti, di coloro che, etichettati con una diagnosi psichiatrica, vengono considerati incapaci di intendere e volere, e quindi incapaci di omunicare pensieri sensati. “Sentivo di trovarmi davanti a persone cui era stato tolto con la forza il diritto di comunicare, il diritto di essere uomini”.

Se esco da questo squallore
da questo squallore senza nome

da questo squallore
da questo squallore

siamo giovani vecchi bambini

tutti senza futuro
tutti ammassati
tutti isolati

tutti senza futuro
tutti senza futuro

tutti vuoti
tutti vuoti

Li hai visti i manichini?

Li hai visti come sono?
Li hai visti come sono?

Specialmente la sera
Specialmente la sera

quando sembrano ancora
più vuoti

nella luce finta

nei bagliori delle insegne

che s’accendono

che si spengono

che si accendono

che si spengono

come i rintocchi
di una campana

che ti impedisce
di dormire
Se esco da questo squallore
da questo squallore

Se esco fuori
mi ammazzo

Per tornare
finalmente
nel nulla

Per tornare
finalmente
nel nulla

Voi direte:

gesto insano
di un pazzo
fuggito
dal manicomio

Io non so perchè il sole
non scappa

Come fa a sopportarvi?
Come fa a sopportarvi?

Giorgio Antonucci ha lavorato per 23 anni successivamente in due manicomi, dall’agosto 1973 al settembre 1996. Fin dall’inizio aveva iniziato a liberare le persone. “Liberarle è il termine giusto, cioè toglierle dalla prigionia, prima dalle camicie di forza, poi aprendo le celle. Che voleva dire liberarle non solo dalla prigionia e dalla sorveglianza, ma anche da tutti i trattamenti come l’elettroshock, l’insulina-coma, la lobotomia, gli psicofarmaci e anche altri trattamenti come quello di provocare le febbri, la cosiddetta malarioterapia e altre cose di questo genere. Ho cominciato nel reparto ritenuto più difficile, nel reparto che loro chiamavano delle agitate, che erano delle persone che loro ritenevano più difficili. Ho aperto il reparto e ho liberato le persone che hanno cominciato a uscire, prima nel parco e poi in città. Per quanto riguarda i farmaci, si trattava di liberare le persone dalla prigionia e insieme anche dall’intossicazione da farmaci”.
“Le persone dovevano riprendere il rapporto con gli altri, perché insieme a tutto il resto erano isolate e nessuno comunicava più con loro. Riprendere il rapporto con gli altri significa riprendere il dialogo.
Riaprire il dialogo vuol dire che persone, che per anni non hanno più dialogato con nessuno, ricominciano a trovare qualcuno che le ascolta. Naturalmente si tratta di persone che non hanno il cervello diverso dagli altri, come invece gli psichiatri hanno sempre cercato di dimostrare, attraverso ipotesi incontrollabili”.
“Sono persone come noi, che per circostanze più o meno spiacevoli, casuali o anche programmate, sono state estromesse dal consorzio umano.
Sono persone con cui si deve comunicare.
Comunicare significa la lingua, il linguaggio, la parola, ma anche altri tipi di comunicazione.
Si comunica anche in silenzio. Nel senso che si può stare insieme senza parlare e si comunica. Con i movimenti, gli occhi, tutto quanto.
Si deve sostituire la comunicazione a tutte le pratiche nocive. Comunicare con persone come noi, identiche a noi, ognuna con la sua storia, con la sua individualità”.

“Se, oltre al fatto di definirti come persona che ha delle angosce, delle contraddizioni, delle paure, una persona che ha un difetto al cervello, ti mettono in una situazione di inferiorità e questo ti taglia fuori la possibilità di risolvere i tuoi problemi e di superare le tue angosce. Allora tu pensi che i tuoi problemi non dipendano dalla tua vita interiore e dalla tua vita pratica, ma da un difetto che hai e non ne esci più fuori, la psichiatria ti incastra in una situazione da cui non puoi più uscire. Perché tu vai cercando di guarire da una malattia che non c’è, invece che risolvere dei problemi che ci sono”.

“Se tu vieni da me perché sei disperata o perché hai paura di uscire di casa, i casi sono due: o ti aiuto a capire quali sono queste paure, come si fa a superarle o ti dico che sei nevrotica e ti metto in condizione di pensare che la tua testa funziona male, che queste paure sono il cattivo funzionamento della tua testa, così ti senti anche inferiore agli altri e hai più paura di prima. E’ una questione anche teorica, ma soprattutto di metodo. Dicendo a una persona che ha delle paure (posso avere delle paure e ci fantastico sopra, posso avere paura che ci sia qualcuno in giro che mi uccide anche se non c’è, perché la mia immaginazione da forma a questa mia paura), che questo è un difetto che si cura con le medicine, metto la persona in una posizione falsa da cui non esce più, per cui la psichiatria con il suo concetto di malattia mentale la incastra, anche prima di riconoscerla, la imprigiona anche senza metterla in manicomio” (da un’intervista inedita, febbraio 2004).

La nave del paradiso, Spirali/Vel, 1990.

Erveda Sansi
pubblicato su l'Gazetin - giugno 2005