Intervento di Erveda Sansi, delegata Enusp, il 15 aprile 2011 durante il convegno:
Beyond the walls: il passaggio dall’ospedale ai servizi territoriali.
Deistuzionalizzazione e cooperazione internazionale in Salute Mentale.
Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per avermi invitato ad intervenire. Prima di tutto vorrei dare l’annuncio del MadPride Europe, organizzato dalle due associazioni belghe di utenti della salute mentale Uilenspiegel e Psitoyens, con il supporto della Rete Europea degli utenti e sopravvissuti alla psichiatria (Enusp), e che si terrà nei giorni intorno all’8 ottobre 2011. Accettare gli altri con tutta la loro diversità è la condizione primordiale delle società progressiste e positive, è il concetto di Mind Freedom, dal quale prendono ispirazione gli eventi del MadPride, i cui scopi sono: celebrare la nostra diversità, compresa la nostra “follia” e il potere di autodeterminazione dello spirito umano libero; far conoscere ad un largo pubblico il grado di stigmatizzazione e di esclusione sociale di cui sono vittime le persone che soffrono di problemi di salute mentale e che sono psicologicamente differenti, compresi gli abusi commessi dalla psichiatria; sostenere e promuovere gli interessi delle persone che soffrono di problemi di salute mentale e/o che sono psicologicamente differenti; far riconoscere la nostra sincera volontà di lavorare in partenariato egalitario e di avere un dialogo costruttivo, anche se a volte deve essere critico, con gli attori della salute mentale e gli attori politici a tutti i livelli. Si tratta di manifestazioni nelle strade, di happening locali gioiosi e non-violenti, di produzioni teatrali all’aperto, di stand, discorsi, scritti, letture di poesie ecc. Jacques Bonnafé, ha detto: “Si può giudicare il grado di civilizzazione di una società dal modo in qui essa tratta i pazzi”.
Sono qui come rappresentante di Enusp, e pur essendo italiana (arrivo dalla Lombardia), mi sembra di essere arrivata dall’estero, nel senso che ho trovato qui una realtà psichiatrica del tutto diversa rispetto a quella che conosco. Sono molto meravigliata del fatto che nonostante qui da molti anni si operi per la de-istituzionalizzazione e il superamento dell’ideologia manicomiale e che i risultati positivi, sia dal punto di vista economico che di quello umano, siano sotto gli occhi di tutti, questo modello sia stato solo scarsamente imitato.
In Italia, su un totale di 321 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ne esistono circa 15 che fanno parte del “Club Spdc porte aperte no-restraint”, cioè che dichiarano pubblicamente di non chiudere le porte a chiave e di non usare mezzi di contenzione.
La situazione in Italia, ma anche in alcune realtà nel resto dell’Europa, a parte alcune eccezioni, è peggiorata, rispetto al periodo della messa in discussione dell’istituzione psichiatrica, a partire dall’inizio degli anni sessanta. L’Italia è stata all’avanguardia per quanto riguarda la chiusura dei manicomi. Non solo Franco Basaglia e moltissimi operatori, ma anche una buona parte della gente comune si era resa conto che gli ospedali psichiatrici non sono luoghi di cura. La società civile, allora, era sensibile al tema dell’abbattimento della cultura manicomiale, lanciato da Franco Basaglia. Apparivano pubblicazioni, esisteva un dibattito aperto, operai e studenti si organizzavano ed entravano nei manicomi per verificare di persona la condizione in cui versavano i loro concittadini rinchiusi, protestavano e denunciavano le condizioni deplorevoli in cui gli internati erano costretti a vivere.
Da alcuni anni a questa parte si sta invece assistendo ad una re-istituzionalizzazione e nel contempo nei reparti psichiatrici di alcuni ospedali italiani si sono verificati molti fatti deprecabili, che riguardano l’istituzionalizzazione forzata e la contenzione.
Alcuni di questi fatti sono diventati tristemente famosi, grazie ai parenti e a comitati che chiedono giustizia, come nel caso del maestro Franco Mastrogiovanni, di cui si è dibattuto anche sui canali della televisione nazionale. Franco Mastrogiovanni, dopo un Trattamento Sanitario Obbligatorio eseguito nel 2009, in circostanze che sono oggetto di procedimento penale in corso, è stato fortemente sedato, legato al letto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania e lasciato morire, dopo quattro giorni di abbandono. Una telecamera nascosta ha registrato tutto, il video è di dominio pubblico.
Giuseppe Casu, reo di aver voluto continuare ad esercitare il suo lavoro di ambulante sulla piazza del paese, è morto dopo essere stato ricoverato contro la sua volontà, legato mani e piedi al letto per sette giorni e fortemente sedato. Un cittadino nigeriano di 34 anni Edhmun Hiden, nel maggio del 2008 si era fatto ricoverare volontariamente in un reparto psichiatrico a Bologna, ma il giorno dopo aveva deciso di dimettersi, perché non si sentiva preso in cura. A quel punto è stato sedato, tenuto fermo e legato al letto con l’aiuto delle forze di polizia; è morto poco dopo, a causa di un infarto.
Questi sono solo alcuni dei casi giunti alla ribalta, ma tanti non si conoscono, quando si tratta ad esempio di persone sole o i cui parenti sono consenzienti o desiderano solo liberarsi di una persona percepita come fastidiosa. Personalmente vengo continuamente a conoscenza di Trattamenti Sanitari Obbligatori, durante i quali le persone trattate subiscono pesanti danni. Il TSO spesso viene effettuato su richiesta dei parenti, perché il paziente non ha più assunto la terapia farmacologica o perché non vengono condivisi i suoi comportamenti, percepiti come fastidiosi. Un mio amico ha tentato di scappare, ma è stato braccato e riempito di psicofarmaci, e poco tempo dopo è stato trovato morto in fondo a un burrone. Aveva 40 anni. Un altro amico stava camminando su un sentiero tra i campi ed è stato fermato dai carabinieri, perché conosciuto come persona psichiatrizzata. Hanno quindi telefonato allo psichiatra di turno e fatto ricoverare “perché passeggiava nei pressi della ferrovia e magari poteva avere in mente di suicidarsi”. Conosco questa persona che passeggia spesso nei campi, dove peraltro è facile, a causa della costituzione del territorio, venire a trovarsi nei pressi della ferrovia. Un altro amico è morto buttandosi sotto un treno terrorizzato del fatto che la madre, in accordo con lo psichiatra, voleva farlo sottoporre a TSO. Un altro, ha subito un mobbing pesante dopo aver denunciato un suo superiore di malversazioni, di cui si era accorto durante le sue funzioni di tecnico comunale; è stato sottoposto a TSO per mezzo della polizia in tenuta antisommossa; mentre stava dormendo hanno abbattuto la sua porta di casa, lo hanno buttato a terra pancia in giù e ammanettato. Lui dice che perlomeno avrebbero potuto provare ad aprire la porta, che non aveva chiuso a chiave. Ora è terrorizzato, ha persino paura del buio, ma assume regolarmente gli psicofarmaci. Non possiamo pensare a una de-istituzionalizzazione se prima non si tolgono di mezzo le normative che permettono il Trattamento Sanitario Obbligatorio, cioè che permettono di detenere una persona contro la sua volontà, senza che abbia commesso un reato, senza che abbia diritto ad un processo, in modo del tutto arbitrario, sulla base della presunta pericolosità e solo perché gli è stata diagnosticata una patologia mentale. La normativa sul Trattamento Sanitario Obbligatorio lascia un ampio margine di arbitrarietà ed è in netto contrasto con la normativa sui diritti umani, tesa a preservare anche le persone disabili dai trattamenti degradanti e disumani. Per chi commette un reato, è previsto che l’autorità giudiziaria, nel rispetto di precise disposizioni processuali, commini sanzioni o eventualmente misure restrittive. Ho costantemente a che fare con persone in Trattamento Sanitario Obbligatorio che non riescono più a trovare il modo per uscire dall’istituzione psichiatrica.
La dottoressa Calchi Novati, psichiatra del Spdc dell’Ospedale Niguarda, è stata duramente mobbizzata perché si opponeva e non era d’accordo con le pratiche di contenzione dei pazienti non solo tramite le cinghie, ma anche per mezzo dello spallaccio, di manicomiale memoria, e ad altre pratiche umilianti. Preferiva avere un dialogo aperto con i suoi pazienti, ridimensionare o scalare l’assunzione di psicofarmaci, occuparsi dei loro problemi esistenziali. Tra pochi giorni la dottoressa dovrà sottoporsi al terzo procedimento disciplinare del Consiglio di disciplina e rischia il licenziamento, perché nel 2010, si era lamentata della sua difficile situazione lavorativa con una ristretta cerchia di amici su facebook. Nel frattempo i suoi ex-pazienti, hanno firmato una petizione con più di 500 firme in cui chiedono che la dottoressa venga riammessa al posto di lavoro. Altri operatori dei reparti psichiatrici del Niguarda, che per il resto è un ospedale di eccellenza, che non erano d’accordo con le pratiche di contenzione nei confronti dei pazienti, sono stati mobbizzati o trasferiti. Nel dicembre del 2010 è stata presentata una serie di denuncie da parte dei parenti di persone decedute o che hanno riportato danni permanenti in seguito alle contenzioni; a partire dal 2006, si evince da queste denunce, nei reparti psichiatrici Grossoni I, II e III dell’Ospedale Niguarda di Milano sono decedute 13 persone, soprattutto in conseguenza alle pratiche di contenzione e all’abuso di psicofarmaci. Sarebbe importante diffondere la consapevolezza che la contenzione è un atto anti terapeutico, rende cioè più difficile la cura piuttosto che facilitarla. La contenzione fisica non viene esercitata solo in ambito psichiatrico. Gli ambiti di esercizio in cui andrebbe discusso il problema della legittimità, utilità e opportunità della contenzione fisica, non sono costituiti solo dagli ospedali, ma anche dalle case di riposo per anziani, dalle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, dagli istituti di ricovero per soggetti con handicap connessi a patologie congenite o precocemente acquisite. Un miglioramento della pratica assistenziale psichiatrica, caratterizzato dalla rinuncia alla contenzione fisica, sarebbe un forte segnale per porre attenzione al problema anche negli altri ambiti operativi, sollecitando coloro che vi operano ad analoghe pratiche di trattamento non restrittivo. In questi giorni mi è stata data la possibilità di visitare il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) di Trieste e la dott.ssa Assunta Signorelli ci ha illustrato la possibilità di prendersi cura delle persone senza utilizzare mai strumenti di contenzione, in un ambiente accogliente e a misura d’uomo, dove il dialogo aperto e la comprensione prendono il posto di una mera soppressione dei “sintomi”. Inoltre le persone qui stanno ricoverate per un giorno e per alcuni giorni solo in presenza di problemi particolari.
Nel “Protocollo di Istanbul - Manuale per un’efficace indagine e documentazione di tortura o altro trattamento o pena crudele, disumano o degradante”, al paragrafo “G - Rassegna dei metodi di tortura”, tra altri metodi di tortura elenca anche: b) Tortura posizionale, usando sospensione, stiramento degli arti, restrizione prolungata dei movimenti, posizionamento forzato u) costrizione ad assistere a tortura o atrocità inflitte ad altri.
La Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome del 29 luglio 2010 ha approvato un documento dal titolo: “Contenzione fisica in psichiatria: una strategia possibile di prevenzione”. Il documento, con le 7 raccomandazioni alle regioni che vi sono contenute, nascono da un intervento del CPT (“Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, che è un’emanazione del Consiglio d’Europa) sui reparti psichiatrici in Italia.
Nel capitolo "Misure di contenzione negli Istituti Psichiatrici per adulti" del rapporto, si dice: “Il potenziale di abuso e di maltrattamento che l’uso di mezzi di contenzione comporta, resta fonte di particolare preoccupazione per il CPT. Purtroppo sembra che in molti degli istituti visitati vi sia un eccessivo ricorso ai mezzi di contenzione”. Il documento stila una graduatoria delle modalità da mettere in atto per far fronte alla violenza del paziente e in essa figurano i mezzi psicologici (interazione verbale e convinzione) e il trattenere il paziente con le mani per breve tempo. Tutto questo viene proposto in alternativa alla sedazione chimica e alla contenzione mediante cinghie. Obiettivo finale delle Raccomandazioni è che tutte le Regioni si attivino per introdurre nell’assistenza psichiatrica le modificazioni (di conoscenze, di atteggiamenti, di risorse, di gestione, di organizzazione) in grado di portare al valore zero, in modo stabile e sicuro, il numero delle contenzioni praticate nei Servizi di Salute Mentale.
Nonostante ciò lo ‘spallaccio’, ottenuto per mezzo di un lenzuolo, opportunamente arrotolato, che ferma le spalle al piano del letto, legato dietro la testata dello stesso, fa parte del protocollo del Dipartimento Salute Mentale del Niguarda e viene anche insegnato agli studenti della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Milano. Da molti anni, in una porzione dell’ex manicomio Paolo Pini, l’organizzazione Olinda organizza attività culturali aperte alla città, rassegne di musica, di teatro, di cinema, attività per bambini, attività sportive, laboratori vari ,il bar ristorante Jodok, l’Ostello, e numerose altre attività in tutta la città e con la partecipazione attiva degli utenti. Sarebbe un paradosso se l’esperienza culturale di Olinda venisse utilizzata per coprire l’inquietante realtà dei 3 reparti psichiatrici Grossoni, che non sarebbe errato definire simile a quella di un manicomio.
Anche se negli ultimi tempi sul tema dell’abolizione delle contenzioni fisiche nei reparti psichiatrici e nelle strutture per anziani sono stati organizzati campagne e seminari da parte di varie organizzazioni, e nei programmi di queste campagne e seminari è possibile leggere dichiarazioni molto ferme: “La contenzione non è un atto medico, è un’offesa alla dignità della persona che la subisce ed è sintomo di grave inefficacia e inefficienza dei servizi che la adottano.” e “Legare una persona in condizione di sofferenza in un letto di ospedale è un atto inumano, non degno di un paese civile.” e “Proponiamo un percorso propositivo verso una progressiva messa al bando di ogni pratica coercitiva”, sembra però che, nonostante tutto, permanga ancora una sottovalutazione dell’urgenza di questa“progressiva messa al bando di ogni pratica coercitiva”. Quando si dichiara che le ragioni pratiche e organizzative dell’assistenza sanitaria impedirebbero una rapida messa al bando della contenzione fisica, sembra che in realtà si continui a sottovalutare la profonda inaccettabilità umana e civile di questo strumento di coercizione fisica dei ricoverati. Si continuino a sottovalutare gli effetti sulle persone legate che questo strumento, severamente vietato da 200 anni nelle carceri, continua a provocare negli ospedali.
La situazione deprecabile dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha acquistato visibilità recentemente, dopo le ispezioni a sorpresa di una commissione parlamentare; i video dei sopralluoghi, le riprese Rai e la rassegna stampa si possono trovare in Internet. Una relazione parlamentare era già stata fatta a giugno dell’anno scorso, ma le fotografie testimoniano di una situazione che finora non è affatto cambiata. Persone detenute da decenni per piccoli reati, la cui pena sarebbe scaduta da tempo se non venisse rinnovata automaticamente, sporcizia e degrado, mezzi e metodi di contenzione manicomiali, bottiglie messe nello scarico del gabinetto perché non escano i topi, problemi fisici trascurati come quelli di una persona con i piedi in cancrena. Il 12 aprile scorso un cittadino rumeno si è suicidato nell’OPG di Aversa, dopo che la pena detentiva, già scontata, gli è stata automaticamente rinnovata. Francesca Moccia del Tribunale per i Diritti del Malato di Cittadinanza Attiva, ricorda che c’è una riforma che aspetta dal 2008 di essere attuata, che prevede il superamento degli OPG. Se non chiuderemo questi luoghi una volta per sempre non potremo parlare di de-istituzionalizzazione. Chiuderli non per trasferire gli utenti in altre strutture psichiatriche, ma per ridare a queste persone la dignità della vita.
Secondo una ricerca (fonte: British Medical Journal) effettuata in 6 paesi europei (Italia, Spagna, Inghilterra, Paesi Bassi, Svezia, Germania) che avevano realizzato la chiusura dei manicomi negli anni ’70, e che tra il 1990 e il 2003 hanno visto un aumento dei posti letto negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, nei reparti psichiatrici a porte chiuse o nelle cosiddette case protette, o supported housing, che vengono viste come alternative al manicomio e quindi come segno di de istituzionalizzazione, ma che rappresentano spesso un tipo di cura e protezione di tipo istituzionalizzato. Sono aumentati anche i Trattamenti Sanitari Obbligatori. Non è molto chiaro perché i posti letto negli OPG siano aumentati, dato che non esiste una correlazione tra omicidi e persone de-istituzionalizzate. Erik Olsen di Enusp mi ha riferito che un’indagine fatta poco tempo addietro a Copenhagen ha dato risultati in un certo senso positivi, dato che quasi il 90% delle persone che ricevono aiuto in campo sociale e psichiatrico, abita in modo indipendente nei propri appartamenti. Solo il 10% abita nei centri per il reinserimento sociale ecc. Ma ci sono ancora 3 o 4 istituzioni mammut dove vivono 173 utenti, in piccole camere doppie, e la toilette deve essere condivisa con altre dieci persone. Utenti con problemi cognitivi devono affrontare abusi in alcune di queste istituzioni, un programma televisivo ha recentemente trasmesso delle riprese fatte con una videocamera nascosta, che ha shockato i telespettatori danesi. In ogni caso, dice Erik Olsen, come facciamo ad essere sicuri che la gente che vive nelle istituzioni, non cada vittima di abusi? Secondo lui l’istituzione di per sé è una violazione dei diritti umani, distruggono la human agency, che invece è necessario ricostruire.
In nessun paese europeo la lobotomia è proibita, e non è proibito nemmeno l’elettroshock, nonostante sia stato ampiamente dimostrato come questi trattamenti invasivi siano distruttivi e non terapeutici. Non possiamo pensare a una de-istituzionalizzazione se non togliamo di mezzo queste pratiche e se non le sostituiamo con il dialogo, la risocializzazione, l’empowering, pratiche che, lo hanno dimostrato il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste ed altri dipartimenti, funzionano benissimo. Occorre che le leggi sui diritti umani già promulgate diventino esecutive.
Anche per quanto riguarda gli psicofarmaci esistono normative della Convenzione per i diritti umani, che impongono il pieno consenso informato dell’utente, anche se disabile, prima della somministrazione degli stessi. Nella maggior parte gli psicofarmaci vengono prescritti per lungo tempo, a volte a vita, senza che l’utente venga informato sui loro effetti, e senza che vi sia un affiancamento nella risoluzione dei suoi problemi esistenziali e reali. L’acatisia, la discinesia, sono effetti molto spiacevoli e possono gettare una persona nella disperazione. Gli psicofarmaci possono creare malattie neurologiche che a volte diventano irreversibili. Spesso l’utente viene incoraggiato a continuare ad assumere gli psicofarmaci anche quando chiede di dismetterli, e ci sono pochi operatori che aiutano e danno indicazioni per la dismissione. Peter Breggin, psichiatra, che collabora con istituzioni come l’OMS e l’FDA, ha scritto centinaia di pagine sugli effetti dannosi degli psicofarmaci. Peter Lehmann, che ha provato l’effetto degli psicofarmaci su di sé durante il suo ricovero in una clinica psichiatrica, ha pubblicato e continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche per le quali utilizza letteratura medica e delle case farmaceutiche. L’effetto degli psicofarmaci è noto, ma il business miliardario che c’è dietro è troppo grande perché lo si lasci perdere. Peter Lehmann è il primo sopravvissuto alla psichiatria ad essere insignito della laurea honoris causa; la laurea gli è stata conferita dalla facoltà di psicologia clinica dell’Università Aristoteles di Salonicco, per il suo lavoro di ricerca e di attivista nel campo della salute mentale.
Una persona che viene avviata ad assumere psicofarmaci, nella maggioranza dei casi verrà indotta a prenderli per tutta la vita, perché creando problemi di assuefazione. L’utente psichiatrico sviluppa una dipendenza molto forte anche dal servizio psichiatrico. Assenza di compliance è infatti intesa di per se un aggravamento della malattia. Quindi il condizionamento che viene effettuato va nella direzione della dipendenza dalla struttura psichiatrica, dell’infantilizzazione, della cronicizzazione. Fin quando si continuerà a somministrare con queste modalità gli psicofarmaci, vere e proprie camicie di forza chimiche, non si potrà parlare di de-istituzionalizzazione.
Anche se in quasi tutti i paesi europei i manicomi e gli ospedali psichiatrici sono stati eliminati o considerevolmente diminuiti, ciò non significa che nelle nuove strutture post-manicomiali siano stati eliminati i dispositivi manicomiali. Le persone sono, con poche eccezioni, completamente sedate dagli psicofarmaci, anche se apparentemente vengono attuati programmi ad esempio di arte-terapia. Si induce l’assunzione degli psicofarmaci anche per rendere inconsapevole l’utente.
Erwin Redig, un ex-utente psichiatrico tedesco, dice: “C’è della gente che ci mette sotto pressione per obbligarci a prenderli. Se non li prendiamo il nostro cambiamento li mette in imbarazzo. Se è questo il nostro caso, dobbiamo chiarire a noi stessi che stiamo ingoiando psicofarmaci per il benessere di altre persone, perché loro ci trovano sgradevoli se non lo facciamo”. “Il dispositivo del complesso del fastidio che opera in piccolo in una residenza, agisce in modo più ampio nella società”. I neurolettici sono gli psicofarmaci che incidono sul pensiero, che bloccano il flusso dei pensieri, e le persone si appiattiscono. Riporto le parole di un operatore: “Appena somministrato il farmaco le persone si spengono letteralmente. Fino a che punto è giusto annullare la persona? Nonostante nei paesi europei la psichiatria manicomiale e l’ospedalizzazione degli utenti psichiatrici abbiano lasciato il posto alle comunità, la cultura dell’istituzione psichiatrica non è cambiata. Nonostante esistano molti esempi, che hanno dimostrato che è possibile accompagnare una persona in difficoltà fuori dai suoi problemi con il dialogo e il supporto nella risoluzione delle difficoltà oggettive e materiali, rendendo le persone consapevoli dei propri diritti, si continuano volutamente ad ignorare questi esperimenti e i loro risultati positivi.
Sono fiorite negli ultimi anni numerose Onlus che si occupano del cosiddetto “reinserimento” sociale della persona psichiatrizzata. Dopo la chiusura dei manicomi in Italia, sono state aperte tante piccole strutture residenziali “intermedie” di psichiatria quali le case famiglia, le case protette, appartamenti in condivisione, che però spesso non hanno niente di sostanzialmente diverso rispetto alle istituzioni psichiatriche classiche. La regola è: “Questo appartamento è una struttura dell’Asl e nell’abitarlo, dovete seguire le regole di vita che l’istituzione impartisce”. Gli inquilini, cioè gli utenti psichiatrici, non hanno il controllo sul denaro per la gestione della casa, elargito nella forma di sussidi regionali, non hanno mai avuto voce in capitolo nella scelta di un altro inquilino, sono obbligati a tenere l’appartamento secondo i criteri stabiliti dagli operatori. Recentemente un amico che abita un appartamento di questo tipo si lamentava perché “pagano una donna delle pulizie, che non fa le pulizie, ma si siede e ci impartisce gli ordini su come fare le pulizie, e quando abbiamo finito se ne va”. Il controllo poi si estende alle relazioni esterne. I dispositivi tipici delle istituzioni totali si ripropongono quindi nelle strutture alternative alla istituzionalizzazione, sia nelle strutture intermedie residenziali sia nelle “comunità” alternative. I dispositivi relazionali totalizzanti di eredità manicomiale operano nelle strutture, le modalità di adattamento degli operatori sono le stesse. Gli schemi della residenzialità manicomiale sono quindi tuttora attivi. Ma soprattutto è ancora viva una mentalità manicomiale, ed è perciò importante che ogni persona si renda conto di quanto la mentalità di ognuno sia determinante nel creare o meno i dispositivi propri delle istituzioni psichiatriche, dispositivi costituiscono un modulo operativo diffuso.
Un lavoratore di un Dipartimento di Salute Mentale ha affermato, che “non si può certo parlare di casa famiglia laddove gli atti quotidiani non siano autodeterminati dai residenti”. Le Strutture Intermedie Residenziali previste dalla legge del 1983 dovevano avere come specificità la transitorietà, non dovevano quindi costituire né un ricovero definitivo né un luogo per i ricoveri coatti, dovevano essere residenze transitorie, che rompessero la logica del pregiudizio e dell’esclusione. Nel marzo 1999 con apposito decreto si impose alle Regioni la definitiva chiusura dei manicomi, pena forti sanzioni economiche, perché nonostante la nascita sulla carta dei nuovi servizi territoriali, i manicomi erano ancora pieni di ricoverati. Chiamati con il nome dispregiativo di “residuo manicomiale”, per queste persone che non voleva nessuno, le strutture residenziali hanno rappresentato l’illusione della libertà, si sono invece di nuovo trovate in un istituto psichiatrico. “Molti ricoverati”, scrive uno di loro in un’autobiografia, “non sono mai stati così bene dal punto di vista del comfort, ma nonostante ciò, sono in uno stato di desolazione pauroso”.
Il bisogno indotto di sicurezza, la difesa da una persona ammalata nella mente potenzialmente pericolosa, che in qualsiasi momento, allo scoppio di un raptus, potrebbe commettere un’azione efferata, contro gli altri o contro se stesso, sulla base insomma di questo bisogno e di questo falso scientifico, si costruisce il mito della necessità delle istituzioni manicomiali o post-manicomiali.
Se non si toglie il pregiudizio psichiatrico, l’istituzione manicomiale rimane. Esistono molte alternative portate avanti da singoli individui, associazioni o istituzioni, ma che vengono volutamente ignorate. La responsabilità della risoluzione dei problemi connessi all’istituzionalizzazione, non spetta solo agli psichiatri o agli operatori delle istituzioni psichiatriche, ma a tutta la società civile. Tutti contribuiscono a creare la mentalità manicomiale. Anche gli utenti che hanno interiorizzato la diagnosi psichiatrica e non riescono più a farne a meno.
Mary Nettle, fino al 2010 presidente di Enusp, auspica un sempre maggior coinvolgimento degli utenti e sopravvissuti alla psichiatria nelle ricerche che riguardano la psichiatria, perché spesso invece vengono esclusi o non pagati con la scusa che non sono professionisti.
Ieri ho parlato con un giovane operatore di “Radio Fragola”, la radio che ha sede all’interno del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Alla mia osservazione che in genere la gente comune ha paura della persona etichettata come malata di mente, e che quindi ha paura che non esista la possibilità di rinchiuderla da qualche parte, mi ha risposto: “Qui è diverso, ormai questo diverso e questo modo di rapportarci al problema si è radicato nel territorio e non potremmo più farne a meno”.