lunedì 8 febbraio 2010

Chi è davvero pazzo - la critica alla psichiatria in Svizzera

Chi è davvero pazzo?
Marc Rufer - la critica alla psichiatria in Svizzera

Marc Rufer è noto a chi si documenta su un argomento magari poco accattivante: la critica alla psichiatria. Lavora come psicoterapeuta libero-professionista a Zurigo, dopo un periodo trascorso come assistente medico nella clinica psichiatrica statale di Königsfelden, vicino a Berna. Si occupa di controinformazione, ed è attivo nell’associazione svizzera Psychex (www.psychex.ch) che difende, anche legalmente, chi è perseguitato dalla psichiatria e fornisce informazioni utili sugli psicofarmaci. Suoi articoli sono apparsi in Weltwoche, Neue Zürcher Zeitung, Wochen Zeitung, Schweizerischer Beobachter, Wochen Zeitung, Widerspruch, INTRA-Psichologie und Gesellschaft. Pubblica i volumi Irrsinn Psychiatrie (Pazzia psichiatria) e Wer ist irr? (Chi è pazzo?), entrambi con Zytglogge di Berna. Glückspillen, Ecstasy, Prozac und das Comeback der Psychopharmaka (Pillole della felicità, Ecstasy, Prozac e il ritorno degli psicofarmaci) esce con Knaur di Monaco.
Rufer analizza a fondo l’istituzione psichiatrica, le cui premesse sostanziali non sono cambiate dai tempi Eugen Bleuler, inventore della schizofrenia. Egli mette a nudo l’estrema arretratezza e crudeltà di una psichiatria basata, ora come allora, prevalentemente sulla costrizione e la violenza solo in parte occultate dall’introduzione dei neurolettici nel 1952. Gli psicofarmaci immessi nel mercato dopo la seconda guerra mondiale hanno rappresentato la nuova fascinazione. Volti a plasmare personalità irrigidite, spesso lasciano danni fisiologici permanenti, producendo l’impressione errata che stiano realmente curando una malattia.
Secondo l’autore l’inumanità della psichiatria non è da ricercarsi nella negligenza o non-adempienza di singoli operatori, ma nei presupposti della psichiatria stessa, che si dovrebbe abolire del tutto.
Perché, si chiede, non si trova nessun politico disposto a prendersi carico dell’abolizione della psichiatria? Come mai il potere della psichiatria, nonostante la forte critica che le viene mossa da più parti in tutto il mondo, non accenna a diminuire, ma è anzi in forte crescita? Rufer ritiene che, oltre all’enorme business delle multinazionali del farmaco, la psichiatria offra alla società anche altri “servizi”, quali ad esempio la possibilità di proiettare le proprie paure, i propri bisogni non esauditi e la propria aggressività repressa, sulle persone che questa società ritiene “disturbate nella mente”.
La psichiatria ufficiale ritiene che esistano “disturbi psichici” e “malattie mentali” che hanno origine da una disposizione ereditata biologicamente. La sofferenza psicologica, le attitudini intellettuali, l’integrità morale, l’aggressività, il carattere, insomma tutto il comportamento umano viene inteso secondo il determinismo biologico, cioè esclusivamente come conseguenza della biochimica delle cellule, dalle quali è composto l’individuo. La funzione di queste cellule verrebbe poi indirizzata dai geni individuali, cioè dal patrimonio genetico della persona considerata. Il presupposto decisivo perché venga fatta una diagnosi di psicosi è l’ereditarietà, cioè la disposizione, o vulnerabilità alla malattia ereditata. Leggi naturali immutabili sarebbero quindi in grado di spiegare tutti i fenomeni sociali. Secondo quest’ottica, sarebbe quindi completamente insensato migliorare la qualità di vita degli esseri umani attuando cambiamenti sociali. La malattia mentale è ritenuta biologica, ereditaria, e fondamentalmente inguaribile. Come la schizofrenia. Ne segue che chi viene considerato affetto da malattia mentale deve essere obbligato a sottoporsi ai trattamenti psichiatrici, generalmente per tutta la vita.
Rufer scrive che i neurolettici, paradossalmente, possono generare malattie neurologiche i cui sintomi si manifestano con disorientamento, confusione, irrequietezza, allucinazioni e disturbi del pensiero. Ha verificato queste sue conclusioni con un’esperienza pluriennale, di medico e psicoterapeuta. Deliri tossici possono comparire anche in seguito all’assunzione di antidepressivi e antiparkinsoniani. Gli psicofarmaci producono quindi proprio ciò che dicono di combattere. Solo apparentemente il trattamento con gli psicofarmaci è più umano rispetto ai trattamenti del passato (coma insulinico, camicie di forza, docce gelate, perforazione degli alvei oculari, ecc.). Più precisamente, l’effetto dei neurolettici viene raggiunto mediante il danneggiamento del cervello. Ciò che s’intende come eliminazione dei sintomi psichiatrici è in realtà l’inibizione di tutte le sensazioni. La letteratura medica (Manfred Bleuler!), ha paragonato l’effetto “antipsicotico” dei neurolettici a quello della psicochirurgia, che opera recidendo le connessioni della corteccia prefrontale dell’encefalo, asportandole o distruggendole attraverso l’elettrocoagulazione. I disturbi causati dai neurolettici, la cui azione si ottiene rovinando il sistema nervoso, vengono denominati “sindrome psichica locale” del cervello. I pazienti arrivano a non riuscire più a percepire i propri sentimenti. Anche la comprensione empatica degli altri diventa quasi impossibile, e gli impulsi sessuali vengono bloccati. I cosiddetti malati mentali sono così condannati a vivere una vita priva di vitalità, passione, piacere.
I dubbi rispetto alla percezione dei propri problemi, dopo simili trattamenti, diventano insormontabili.
Un vero aiuto potrebbe consistere nello scoprire i motivi di questi dubbi, per ritrovare di nuovo la fiducia nelle proprie percezioni; ciò che invece la psichiatria offre, sono psicofarmaci che impediscono di percepire le proprie sensazioni “dal di dentro”. Gli psicofarmaci provocano stanchezza, privazione di interessi e stimoli, disturbi del pensiero, incapacità di concentrazione, calo drastico del rendimento intellettuale, riduzione della creatività, rassegnazione, rinuncia. Va da sé che la tendenza al suicidio ne venga incrementata. Non si deve dimenticare l’alta percentuale di complicazioni mortali, soprattutto nelle iniezioni depot (a lento rilascio) di neurolettici, perché all’insorgere della sindrome neurolettica maligna non è possibile interromperne la somministrazione. Chi viene colpito da provvedimenti psichiatrici, scrive Rufer, è più confuso, insicuro e vulnerabile, ed è perciò molto suggestionabile e ricettivo alle indicazioni, ai suggerimenti, ai cenni e ai messaggi che gli vengono comunicati. Inoltre, dato che quello dell’ammalato mentale è la sola parte che gli è consentita, inizierà sempre più a pensare se stesso nei termini di questo ruolo stereotipato che diventerà la sua nuova identità. Allo stesso tempo, le persone che gli sono intorno cominceranno ad osservarlo sempre di più. Marc Rufer, dotato di grande capacità di osservazione empatica, fa notare come la persona psichiatrizzata, che comincia ad avere la sensazione di essere vittima di una congiura, non interpreta affatto la realtà in modo distorto. L’accettazione dell’etichetta psichiatrica, da parte della persona psichiatrizzata e del suo ambiente circostante, procurerà ad essa enorme insicurezza rispetto alla comprensione di sé e della propria identità; diventerà effettivamente debole e bisognosa di supporto, come descritto dalla psichiatria. Essa sarà così vittima del mito della malattia mentale, e contemporaneamente la dimostrazione vivente della presunta validità di questa mitologia fatale. Il ricovero in un ospedale psichiatrico crea enorme insicurezza. I problemi diventano molto più pesanti, e quasi irrisolvibili rispetto alla problematica esistenziale che aveva condotto al ricovero. La perdita dell’indipendenza, della capacità di farsi valere nei confronti degli altri, conoscenti compresi, e la diminuita sicurezza in sé, non solo vengono fissati, ma anche considerevolmente saldati.
D’altronde l’utente psichiatrico viene premiato solo se interpreta il ruolo dell’ammalato mentale, senza opporre resistenza. Il rifiuto dell’accettazione della malattia porta ad un prolungamento dell’ospedalizzazione e spesso all’incremento del dosaggio dei neurolettici. Viene inoltre sistematicamente bloccata la possibilità di rientrare in un ruolo diverso da quello del paziente psichiatrico.
Le persone psichiatrizzate soffrono soprattutto a causa della psichiatrizzazione. L’originaria problematica esistenziale si sposta sullo sfondo e diventa in gran parte irrisolvibile a causa dell’inutile sofferenza creata ex-novo dalla forza dirompente dell’intervento psichiatrico, che andrà consolidandosi.
Marc Rufer è convinto che la psichiatria sia da sempre specializzata nel riconoscere precocemente la diversità. Prima produce i “sintomi” e poi giustifica l’esercizio della violenza psichiatrica, medicalizzando i problemi derivanti dai rapporti interpersonali, a favore del più forte e a svantaggio del più debole. Chi invece riesce a liberarsi dell’apparente sicurezza fornita dalla prospettiva psichiatrica diventerà più aperto e vivo, e acquisirà, oltre alla comprensione per gli altri esseri umani, anche capacità introspettiva.
A chi crede sia impossibile l’immedesimazione nei comportamenti e nelle esperienze dei cosiddetti ammalati mentali da parte di chi si ritiene normale, Rufer risponde dedicando due capitoli del libro Wer ist irr? alla ricostruzione, in prima persona, della storia di vita di un essere umano definito schizofrenico e di un altro diagnosticato come maniaco. E’ necessario però togliersi di dosso i pregiudizi per capire che le sofferenze vissute dai due uomini potrebbero capitare a chiunque.
Nello stesso volume l’autore sostiene come la rimozione e la mancanza di dibattito da parte della psichiatria per quello che è successo durante il regime nazista, cioè l’eliminazione di migliaia di vite di bambini e di adulti “non degne di essere vissute”, costituisce il motivo per cui gli psichiatri continuino a rimanere ancorati a punti di vista sorpassati e distruttivi. Un unico psichiatra, allora, si era opposto all’eccidio. In questo modo la psichiatria riesce ad evitare di affrontare l’analogia tra l’attuale psichiatria e la teoria dell’igiene di razza che allora prevedeva l’eliminazione in massa di persone la cui vita era considerata “non degna di essere vissuta”. Come “i matt”.